Da Viterbo a Sutri

Con la consulenza degli ospitalieri abbiamo deciso: oggi percorreremo la variante alta che porta direttamente a Sutri senza passare da Vetralla e Capranica. Sarà una tappa lunghetta ma interessante. Partiamo alle sei e mezza.
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L’uscita da Viterbo è un po’ laboriosa. All’inizio sono con noi Gianni e Antonella, una coppia di Brescia che, a quanto ho capito, macina bene la strada: Gianni ha 60 anni e il fisico asciutto del maratoneta, Antonella è piú giovane, non ha la preparazione del marito ma è comunque in ottima forma e lo segue senza perdere colpi. Dopo qualche chilometro innestano la marcia veloce e ci danno appuntamento alla sera.

Oltre Porta Romana la salita è quasi subito impegnativa. Qualche villa di campagna e poi boschetti alternati a radure. Prendiamo una scorciatoia consigliata dagli ospitalieri di Viterbo che taglia verso il lago di Vico escludendo però l’abbazia di San Martino. Pensiamo sia un sacrificio ragionevole, ma non lo è: a conti fatti e secondo il GPS di Marco la strada risparmiata non sembra tanta; in più abbiamo dovuto affrontare una boscaglia ripida attraversata da un sentiero incerto invaso da rovi e ragnatele. Tutto molto diverso da quanto promesso dal suggeritore. L’unica cosa buona di questa variante è il punto panoramico sul lago di Vico, ma si poteva raggiungere ugualmente con una piccola deviazione. Peccato che questo bel lago vulcanico si nasconda così tanto alla vista, almeno da questa parte.

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Il percorso prosegue attraverso una bellissima faggeta. La mattina è ormai avanzata, oggi il sole picchia e non è male camminare per qualche chilometro all’ombra. Lo sterrato che attraversa il bosco è molto ampio e sale sensibilmente per diversi chilometri, poi scende altrettanto in meno spazio. Ci ritroviamo nell’ora più calda a fare gli ultimi dieci (e oltre) chilometri al sole, ma il percorso è interessante. Costeggiamo piantagioni di noccioli (varietà romana) molto estese. Le energie cominciano ad affievolirsi e l’arrivo a Ronciglione è un po’ sulle ginocchia. Si impone una sosta e fatichiamo a trovare un bar aperto che abbia da mangiare qualcosa di più di un pacchetto di patatine. L’importante comunque è fermarsi, decongestionare un attimo le gambe e bere in abbondanza.

Gli ultimi chilometri per Sutri sono sulla strada provinciale, bella, non molto trafficata, in mezzo alla campagna. Le chiamate telefoniche alle suore sono infruttuose. Entrati nel borgo, oltre il ponte e la magnifica porta, andiamo a suonare direttamente al campanello. “Oggi niente ospitalità”. Ah. situazione simile a quella che ho trovato a San Giminiano: ospitalità religiosa a singhiozzo, e proprio nel periodo dell’anno di maggior flusso pellegrino. Come promesso ritroviamo i due bresciani, ma anche loro stanno ancora rimbalzando da un luogo all’altro. Giriamo attorno alla bella piazzetta centrale in cerca di ospitalità. Alla Pro Loco danno qualche indirizzo e insistono a volerci dare una credenziale “laziale” veramente orribile. La prendo solo per cortesia. Questi non hanno capito che un pellegrino non è un turista da fidelizzare e che quando entra nella loro regione ha già la sua credenziale e non è interessato a cambiarla.

La sistemazione è ottima. Come a San Giminiano, uguale: ospitalità privata batte ospitalità pellegrina, prezzo uguale, camere a livello di albergo. A ospitarci è una coppia avanti con gli anni che ha un grande appartamento prospiciente la piazza. Si entra da un grande portone, si salgono diverse rampe di scale che cambiano direzione due volte e si arriva in un’ala di un palazzo nobiliare che ora è diviso in appartamenti. C’è spazio per tutti e cinque, una camera singola per me, il soggiorno-cucina con divano letto a due posti per Michela e Marco e un’altra camera per i bresciani. La padrona di casa è gentilissima e molto disponibile a ogni nostra esigenza. Ci offre tè e biscotti e ci dà tutte le informazioni di cui abbiamo bisogno.

Abbiamo ancora un’oretta prima di cena per goderci la piazza e il placido andirivieni estivo di questo luogo di villeggiatura. Il sole allenta la sua morsa e diventa piacevole mentre passeggiamo per le vie, scattiamo qualche foto alla fontana e scambiamo due chiacchiere con altri pellegrini. In quel momento arriva Christoph, un ragazzo austriaco che Marco e Michela avevano già incontrato, non ho capito bene dove. Grandi feste. Troviamo una sistemazione anche per lui dai nostri gentilissimi padroni di casa, che lo accolgono nel loro stesso appartamento come un figlio assegnandogli una camera sottotetto spettacolare. Poi un ultimo giro. Dalla piazza alta e centrale giù alla porta opposta del paese, quella da dove usciremo domani. Vediamo da lontano parte dei resti archeologici di questo borgo antichissimo, che in pochi sguardi restituisce tutto il tempo, tutte le epoche che ha attraversato, tutti i poteri che l’hanno dominato e plasmato.

Ristoranti ce ne sono diversi e tutti allettanti, ma forse c’è un’unica destinazione possibile per un pellegrino: La Buca.

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Da Montefiascone a Viterbo

Il gruppone che avevo trovato ad Acquapendente si è un po’ disperso. Alcuni hanno raggiunto Viterbo già ieri pomeriggio, altri hanno trovato sistemazione da altre parti e oggi non li vedo. Dalle benedettine ci sono un nutrito gruppo di spagnoli di Alicante, che si dileguano all’alba, e una coppia di Lecco, Marco e Michela. Comincio a scendere da Montefiascone con loro alle otto passate, senza fretta: non è molta la strada da fare oggi.
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Ancora oggi, come ieri, si cammina a tratti sul basolato dell’antica Cassia. Con lo sfondo dei monti Cimini e della piana di Viterbo è ancora più spettacolare.
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Marco e Michela si rivelano presto ottimi compellegrini. Mi piace camminare e parlare con loro. Marco è un operaio specializzato in carpenteria, Michela è una videomaker.
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A Viterbo ci sistemiamo dagli agostiniani. L’accoglienza è gestita da scout adulti che fanno turni e si dividono i compiti. Arrivano alle due e mezza, noi siamo lì già quasi due ore prima ma possiamo usufruire di una prima accoglienza “esterna” con tavolo, ombra, acqua, bagno, lavatoi. Poi arriva il primo dei volontari, Andrea, che si dimostra subito amichevole e ci dà molte informazioni per oggi e per la tappa di domani.
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Il convento, molto grande, è accanto alle intatte mura medievali che fanno il giro completo della città. L’edificio in cui dormiamo fa parte della cinta muraria, doveva essere in origine un alloggiamento per guardie o qualcosa di simile. Pare (da verificare) che proprio qui abbia alloggiato Pio VI prigioniero in viaggio verso la Francia, custodito per disprezzo in questi locali di servizio invece che nel convento, e proprio a Viterbo, che un tempo fu anche sede papale.
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Abbiamo molto tempo oggi per un bucato totale e per la visita alla città. Il quartiere di San Pellegrino è da vedere. Raramente ho trovato quartieri medievali così compatti e ben conservati in città di media grandezza. Un conto è un paesone come San Giminiano, un altro conto è una città grande che fatalmente subisce molte trasformazioni.
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Cena affollata alla sera con tre ospitalieri, gli spagnoli e altri arrivati nel pomeriggio.

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Da Bolsena a Montefiascone

Partire al mattino presto da un posto come Bolsena, vedere la vera quieta bellezza del lago dalla riva al crinale è qualcosa che auguro a tutti di fare una volta nella vita. Non so come altro dirlo

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Altra emozione della mattinata: il selciato della vecchia Cassia, recuperato non so come e da quando. Ma che bello camminare su quelle pietre.

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Non posso documentare con un’immagine il tripudio di more che ho raccolto nell’ultima parte della tappa: troppo impegnato a mangiarle per pensare alle foto.

Montefiascone mi ha sorpreso. Onestamente la conoscevo solo per il vino. È uno splendido borgo murato in cima a uno sperone di roccia, con una vista sia verso il lago di Bolsena sia verso Viterbo e i monti cimini che non ci si crede. Si starebbe sulla Rocca dei Papi per ore a contemplare il paesaggio, a vederne le variazioni al variare della luce.

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L’ospitalità delle benedettine non è male, anche se non è integralmente ospitalità pellegrina. La struttura è bella, grande e abbastanza funzionale. Con sovrapprezzi si possono avere cena e colazione. Io però, nonostante l’obbligo di rientrare entro le nove, opto per una cena fuori perché voglio godermi quanto posso la serata, l’aria frizzantina (non è tanto caldo), la magia di questo posto.

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Da Acquapendente a Bolsena

Che io sia il pellegrino di giugno o uno completamente diverso, il dato è che non ho fatto molta fatica a riprendere la via. Aiutato anche da una tappa breve e senza difficoltà. La prima parte tutta piatta nei campi. Poi, una volta superato il poggio di San Lorenzo nuovo con la sua bella chiesa, è la piana di Bolsena a prendere la parola. Si svela subito tutta intera e dopo, man mano che si scende, si rinasconde un po’.
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Cammino per tutta la mattina con James, poi verso la fine raggiungiamo anche alcuni degli altri che erano a cena ieri. Pare destino che in questa Francigena mi trovi con gli inglesi. Non mi dispiace. James è uno psicologo del servizio pubblico, vive a Sheffield, è nato a Manchester da genitori irlandesi, è cattolico. È partito da Canterbury il 1 giugno, in questi giorni ha problemi a un ginocchio ma cammina bene.
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Il percorso arriva a Bolsena dall’alto attraverso uno sterrato che offre differenti scorci sul lago: meglio che scendere subito seguendo la Cassia.
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Oggi è ferragosto e Bolsena fa il pieno di turisti, ma promette comunque un pomeriggio piacevole. La sistemazione dalle suore del Santissimo Sacramento, proprio nella piazza dov’è la cattedrale di Santa Cristina, è ottima.
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Il miracolo di Bolsena del 1263 è, ancora oggi, una sfida. Conosco bene la vicenda, ma la cosa nuova oggi per me è l’analogia delle “sacre pietre” bagnate dal sangue uscito dall’ostia con le pietre del Santo Sepolcro di Acquapendente, arrivate quasi due secoli prima, ma a distanza di sola mezza giornata di cammino sulla Francigena. Un filo a tema eucaristico si dipana su questa strada. Per il resto ho sempre visto l’ostia di Bolsena come un punto di convergenza unico tra temi e storie diverse, una di quelle emergenze rivelative straordinarie che non sono frequenti ma che non possono neanche essere casuali, come anche Lourdes. Un conto sono le reliquie dei crociati che notoriamente non erano il massimo dell’attendibilità, come anche le tradizioni sul rocambolesco martirio di Santa Cristina a cui i fedeli del luogo sono molto affezionati, un altro conto è questo episodio sconvolgente, raccontato da molti testimoni e ancora riscontrabile nei documenti e nei reperti, che irrompe nelle aule di teologia del tempo e fa saltare sulla sedia San Tommaso d’Aquino che, per una volta, perde il suo aplomb e compone un inno liturgico pieno di passione oltreché di perfetta dottrina.
La visita di oggi mi conferma questa eccezionalità. Santa Cristina è un colpo al cuore, custodisce davvero qualcosa di unico, comunica l’energia, la potenza del mistero eucaristico. Ciò che da altre parti sembra rito impolverato qui splende di novità, appare quello che è davvero: vita. Cerco di spiegare queste cose a James, che chiede senza opporre obiezioni o incredulità metodica. Qualsiasi cosa si pensi, da qualsiasi punto di vista, l’altare del miracolo è emozionante.
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La sera sul lago e nei vicoli è bella, rilassante, rasserenante. Vedremo anche un po’ di stelle. Non fa caldissimo ma porto il sacco a pelo fuori e dormo in giardino. Non sarà come quella sera di molti anni fa, sul cammino di San Francesco, quando dormii sulla riva del Trasimeno sotto un salice. Ma la brezza del lago e la sera d’agosto sembrano proprio le stesse.
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Acquapendente parte seconda

E rieccomi. Come avevo promesso. Devo ringraziare in primo luogo due cari amici dei Pellegrinipersempre che mi hanno portato qui e mi hanno risolto un bel po’ di problemi. E poi ringrazio per questi due mesi di grazia e di compagnia, che mi fanno ripartire da questo paesone mezzo rurale e mezzo monumentale ben diverso da come ero. Mi guardo intorno per le vie di acciottolato bruno, scruto le facciate dei palazzi di tufo e granito, osservo i “pugnaloni” (grandi dipinti) allineati nel Duomo come cercando qualcosa. Cerco me stesso. Cerco di riconnettermi a quel 29 giugno, ancora mi fa strano pensare che domani sarò di nuovo in cammino e chiedo a quell’Alessandro di un mese e mezzo fa, che aveva camminato per due settimane, di riprendersi il testimone. Gli ho portato lo stesso zaino, le stesse cose. Ora arriva e ci pensa lui. No, ancora non si fa vedere.

Non trovo posto alla Casa di Lazzaro. Anche questo aspetto è cambiato: domani è ferragosto, gli ospitali sono pieni. Anche la Confraternita di San Rocco è al completo. Due posti sono ancora liberi ma sanno che arriveranno altro pellegrini e io, che oggi non ho camminato, non me la sento di insistere: se qualcuno stasera deve dormire più scomodo è giusto che sia io. Guardo la volontaria che mi ha messo il timbro e appare dispiaciuta, le sorrido e le dico: “sono un pellegrino, mi basta un tetto sulla testa”. Lei ricambia il sorriso: “Sì, a te ti sistemo”. Scendiamo al piano terra, recupera un materasso e un lenzuolo, entriamo in sacrestia: scelgo il luogo che mi sembra più confortevole e tiro fuori il sacco a pelo per occupare la preziosissima piazza, tra Cristi, abiti di confraternita e altri armamentari da processione già pronti per la festa di San Rocco del 16.
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Non rimango solo a lungo: poco dopo arriva James, anglo-irlandese di Sheffield, visibilmente affaticato e anche un po’ claudicante per un problema a un ginocchio. Lui trova posto su un predellino di legno dove viene sistemato un altro materasso. Ok, ora l’ospitale è davvero al completo.
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Esco nuovamente alla ricerca del pellegrino di giugno, che ancora mi sfugge. Vado verso destra e subito, dall’altra parte della strada, vedo una targa sul muro di una specie di negozio di abiti usati. “Chiesa di San Pietro, XIII secolo”. Guardo meglio: l’intera facciata dello stabile poteva essere, in effetti, una chiesa. Chissà da quanto tempo è sconsacrata e privata. Entro nel negozio, chiedo il permesso di guardare e fotografare. Senza parole.
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Poi visito il “Santo Sepolcro”, cosa che aveva tentato di fare quel pellegrino a giugno senza riuscirvi, perché nonostante fosse domenica alle sei era già chiuso. Acquapendente è detta anche la Gerusalemme della Francigena perché in una cripta della cattedrale c’è una imitazione del Santo Sepolcro. Fu costruita nell’XI secolo per custodire delle reliquie portate dai crociati del luogo, in particolare alcune “pietre bagnate dal sangue di Cristo”.
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La cena è bella, affollata di pellegrini e forse nuovi amici. Facciamo una tavolata da16 all’aperto sotto i portici della piazza centrale, tiriamo un po’tardi ma oggi per me non è un problema, mi chiedo come non lo sia per gli altri… Quel pellegrino di giugno se fosse qui non crederebbe ai suoi occhi, lui che fino a Radicofani aveva camminato e mangiato con uno, due, massimo tre pellegrini alla volta. Mi sto rilassando, ma ancora non ci credo. Domani cammino? Tra sette ore? Dove sei, dove sei? Io ne ho voglia, intendiamoci. Ma dov’è quel filo da riprendere? Che Pietro mi aiuti. Se non stasera almeno domani. Esca al mio primo passo dalla vecchia chiesa che tanto non lo riconosce piú, mi prenda a braccetto e mi accompagni a Roma. Sempre che non arrivi quell’altro me di giugno a camminare con lui.
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Acquapendente

Il cammino verso Roma, per il momento, si interrompe qui. È successa una delle pochissime cose in grado di fermarmi.

Avevo dedicato il cammino a mio padre. Avevo dedicato il cammino verso San Pietro, il padre di tutti nella fede, al mio papà. Questa sera, nel giorno dei Santi Pietro e Paolo, mio padre è mancato.
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Naturalmente non pensavo che potesse succedere proprio in questi giorni. Ero abbastanza tranquillo, se no non sarei partito, e lo eri anche tu. Ti ho abbracciato per bene prima di partire. Ho aspettato apposta quella mattina che tu fossi pronto, ho pensato che fosse più importante che guadagnare tempo per camminare con il fresco. E così, anche se ero pronto e carico da un pezzo e non vedevo l’ora di premere i primi passi sul viottolo del giardino, ho temporeggiato senza darlo troppo a vedere mentre ti svegliavi, ti preparavi, mentre facevi colazione. Ho pensato che davvero volevo portarti con me ed era necessario salutarti bene, non nello stile minimalista che abbiamo adottato milioni di volte nei nostri saluti, perché l’affetto tra noi non è mai stato cerimonioso.
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Ho fatto una cosa giusta. Quell’abbraccio me lo sento ancora addosso e lo porterò a Pietro appena possibile, te lo prometto. In questi giorni di cammino ti ho dato le mie gambe e la mia preghiera. Non ho mai avuto la sensazione che tu fossi lontano, e stasera non ho la sensazione di essere nel posto sbagliato, anzi. Mai stati così vicini. La disponibilità dei miei fratelli mi ha permesso di fare questo cammino con te e per te, in qualche modo sapevamo che era importante. Un pellegrino parte da solo, ma non va mai solo per se stesso.

In fondo ciò che avrei potuto raccontarti al ritorno non è rilevante. Volevo che tu sapessi che stavo camminando per te, e con quell’abbraccio l’hai capito. Tutto il resto è superfluo.

La tappa di oggi è questa, e nient’altro: ma si vede bene quale distanza si può coprire con un cammino, una distanza che non si misura in chilometri. Si, vabbé, poi ho camminato da Radicofani a qui, mi sono fermato in questa “Casa di Lazzaro” (…) sul monte dei cappuccini di Acquapendente. Si, ho conosciuto proprio oggi persone che spero di rivedere. Ho avuto modo di vagliare segni e coincidenze degni di attenzione, ho potuto constatare che non è vero che il mondo è piccolo, è piuttosto il cammino che è grande. E che ciò che chiamiamo caso è solo una misera, ridicola apparenza. Un’etichetta che mettiamo alle matasse che non riusciamo a sbrogliare. Che non spetta a noi sbrogliare, per fortuna.

Un grazie immenso a chi è passato di qui. Oggi ho bisogno di voi e so che ci siete.
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Da San Quirico d’Orcia a Radicofani

Come nascono i miti? È da cinque anni che a volte me lo chiedo, dalla mia vacanza nelle Cicladi (a Naxos in particolare) quando camminavo per ore nell’interno dell’isola in pieno trip preromantico. Le storie che non hanno tempo da quale “emergenza” del bello, del soprannaturale vengono fuori? Oggi è una di quelle occasioni in cui la domanda ritorna. Affronto l’ultimo sterrato per Radicofani, trecento metri di dislivello al termine di una giornata di cammino lunga e non semplice. Davanti a me, in alto, comincio a vedere la rocca con la torre. A destra svetta e domina l’Amiata, che ha tutta l’aria di essere una montagna sacra. Sul sentiero erboso a ogni passo si alzano nugoli di farfalle di ogni colore. Come entrare in una favola, uscire dal tempo. Potrei trasfigurare ogni particolare in un racconto fantastico. Ma rimaniamo con i piedi per terra, atteniamoci ai fatti oggettivi: queste farfalle, sicuramente, mi stanno scortando al castello delle fate. È solo cronaca.
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E la giornata non era iniziata proprio da favola. Sosta a Bagno Vignoni davanti alla piscina di Santa Caterina, poi mi avventuro sull’argine dell’Orcia seguendo le indicazioni della guida. Ne esco dopo un’ora di peregrinazioni senza frutto ritrovandomi praticamente al punto di partenza. Che è successo? Me lo spiegherà la sera l’ospitaliere Maurizio: una piena quest’inverno ha portato via gran parte dei segnali e fatto franare alcuni camminamenti a ridosso della riva. Sul sito l’aggiornamento c’è, ma onestamente non l’ho consultato prima di partire. Una delle cose che avrei voluto e non sono riuscito a fare.
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Per recuperare il tempo perduto mi metto sulla Cassia e innesto il turbo. Il giorno è propizio, è sabato e non c’è traffico pesante. Anche le auto sono scarse. Brucio quasi sette chilometri in un’ora e un quarto. A Gallina sosto nell’unico bar aperto. Un integratore e un caffé mi ridanno liquidi ed energia dopo la sudata eccezionale.
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Poi torno a seguire il percorso della guida. Un po’per campi, qualche ruscelletto da guadare, si passa accanto al sito delle Briccole dove ai tempi di Sigerico c’era un ospitale e alla chiesetta abbandonata (interessante) e poi si entra sulla vecchia Cassia. Un po’ spettrale: per oltre quattro chilometri cammino sull’ asfalto ormai in disfacimento senza vedere un’auto. Neanche una. Un silenzio intenso, strano. Sulla destra l’Amiata comincia a farsi vedere.
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Quando arrivo all’incrocio con la Cassia nuova sono ormai le quattro passate. Ho ancora tutta la salita per Radicofani da fare, è lunga. Chiamo l’ospitale della confraternita di San Giacomo per avvertire del mio arrivo. Prendo a salire prima su asfalto, poi su uno sterrato ripido. La stanchezza si fa sentire, ma quando comincio a vedere la Rocca capisco che è un’altra di quelle mete che faranno scordare il sudore. Il presentimento viene confermato subito, su quel sentiero “incantato”. Ciao stanchezza, ciao male ai piedi, ciao a tutto. Sono un pellegrino e ogni arrivo come questo è un tesoro da tenere per sempre nel cuore. Nel mio cuore questo momento nel tempo è ormai sottratto all’usura del tempo.
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E la sera è finalmente una bella tavolata, “mitica” anch’essa. Siamo in nove tra ospitalieri, pellegrini e ospiti. Si, confermo quanto detto in occasione della sosta di Abbadia a Isola: arrivare qui è come arrivare a casa.
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Da Sant’Antimo a San Quirico d’Orcia

Com’è difficile staccarsi da questo posto. E poi alla luce del mattino, che rivela altri particolari della chiesa, della valle… Sono le sette. Prima di andarmene entro un’ultima volta dalla porta socchiusa. I frati non hanno ancora cominciato l’ufficio. La luce piove nell’abside, sull’altare in onice, lasciando tutto il resto nella semioscurità. Sono piccolo, piccolo. Ma danzo come pulviscolo nella luce.
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Ora però mi allontano. Salgo verso il paese e poi piego verso la parte opposta della valletta. Ma continuo a voltarmi indietro. Potrei scattare centinaia di foto, l’abbazia sembra sempre diversa di nuova bellezza.

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Ho deciso, vado a San Quirico. Non me la sento di fare 40 chilometri oggi. Ho qualche fastidio all’estensore del piede destro che mi consiglia di andarci piano, di dare il giusto riposo alla muscolatura. Non dovrei camminare molto, la guida dà una ventina di chilometri. Salgo e riscendo nella prima ora per immettermi nell’asse principale della Val d’Orcia. La giornata è bella. Molta umidità nell’aria per la pioggia di ieri, si suda un po’ di più del solito.
Il paesaggio non cambia rispetto alla prima parte del percorso di ieri: grandi vigneti, agriturismi, aumentano i pascoli. La sensazione è però che questa campagna sia meno “patinata”.
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Arrivo in breve in riva al fiume. Sono costretto a un guado non semplicissimo sul torrente Asso (perché come spesso accade non ho la pazienza di consultare la guida, che suggerisce un percorso alternativo), un attimo di panico in bilico su una pietra al centro del corso d’acqua ma rimango sui miei piedi e me la cavo molto bene, con danni trascurabili.
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Risalgo un po’ su sterrati un po’ su percorsi più incerti a margine dei campi e dei casolari. In uno di questi mi riforniscono di acqua e chiedo indicazioni. Mancano circa nove chilometri a San Quirico, le indicazioni della rete escursionistica toscana sembrano chiare.
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Già, sembrano. Più mi avvicino a San Quirico più diventano ambigue e incomprensibili. Sbaglio una volta direzione, sono costretto a tornare indietro di almeno un chilometro. Ma lo “sgarro” peggiore lo subisco quando ormai sono quasi arrivato. Incrocio, cartello messo perpendicolare alla strada che sto percorrendo, chiede di andare a sinistra, non ci sono dubbi di sorta. Invece mi spedisce in una strada privata che si perde nei campi. Non c’è nessuno a cui chiedere, torno indietro, riprendo la direzione precedente e dopo una curva finisce lo sterrato ed entro nell’abitato di San Quirico. La rete escursionistica toscana avrà mie notizie.
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Altro fantastico centro storico. Con tre chiese interessanti e addirittura un “Palazzo Chigi”, costruito dalla stessa famiglia della celebre dimora romana.
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L’ospitale è annesso alla bella Collegiata romanica, nello stesso edificio, probabilmente la vecchia canonica. Come a Ponte d’Arbia è gestito da una rete di volontari della parrocchia. È a offerta ma suggeriscono dieci euro, prezzo più che giusto per il trattamento e la qualità della struttura, con ottimi servizi e uso cucina. Finalmente faccio il bucato dopo tre giorni e tonnellate di fango infilato nelle fibre più riposte di ogni vestimento. Devo lavare “tutto”.
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Non sono solo stasera. Ci sono Giorgio e Teresa, una coppia di Fidenza partita da Siena (dove erano arrivati l’anno scorso partendo da casa); Michael, in texano pittoresco che parla un divertente melange di tedesco italiano e francese per farsi capire da noi; un olandese di Utrecht di cui non intendo il nome ma che sta facendo il percorso inverso rispetto al nostro. Uno dei pochi casi di pellegrinaggio “andata e ritorno” che conosca. Ceno in compagnia di Giorgio e Teresa. Altre belle storie di cammini.

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Da Ponte d’Arbia a Sant’Antimo

Ho aspettato fino a ieri sera per decidere, e l’ospitaliere Guido mi ha aiutato a sciogliere gli ultimi dubbi: scelgo di allungare la strada di un giorno per andare a Sant’Antimo. Ma non seguirò, per gran parte della giornata, il percorso descritto nella guida: farò un po’ di strada asfaltata per accorciare. Tanto non ci sono cose imperdibili nel mezzo, e il traffico è tollerabile. Andare verso Sant’Antimo, peraltro, anche se mi porta via un giorno mi fa evitare il lungo tratto sulla Cassia per San Quirico d’Orcia, dove arriverò solo domani “invertendo la marcia” verso nord per pochi chilometri. A meno che non mi senta abbastanza in forma da fare il tappone di quaranta chilometri per Radicofani. Vedremo. Parto alle sette e arrivo in breve nella bellissima Buonconvento. Ma ci saranno paesi brutti da queste parti?
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Poi prendo a seguire lo sterrato che corre parallelo alla ferrovia, ma lo trovo pieno di fango per la pioggia di ieri. Faccio il possibile per evitarlo ma alla fine le scarpe pesano qualche chilo di più e devo fermarmi a scrostarle alla buona. I pantaloni sono inzaccherati fin oltre il ginocchio. Ed è solo l’inizio della giornata. Alé.

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L’incrocio con la Cassia arriva come una liberazione. Mai stato così contento di trovare l’asfalto. Poco dopo arrivo al bivio per Montalcino e mi libero anche del maggior traffico. La strada sale gradualmente in mezzo a vigneti da un milione di dollari al metro quadro. Poi prima del paese, che sta a oltre 500 metri, una bella impennata. Me lo sono meritato un bicchiere di Brunello? Eh sì. E anche due crostoni, via: è quasi l’una e per Sant’Antimo mancano solo dieci chilometri. Non è che capita tutti giorni di passare da Montalcino. Una pausa enogastronomica di un’oretta ci sta tutta.

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Mentre mi godo queste delizie con due assaggi di vino (uno di rosso, uno di Brunello) si addensano nubi minacciose e si fanno sentire tuoni a ripetizione. Ok, se devo scontare la goduria di questa pausa con un’inzuppata nel bosco ci sto, sono pronto a tutto. Ci vuol altro per “annacquare” lo spirito che fluisce potente nelle vene in questo momento. Riparto carico come una sveglia. Tuoni, tuoni e anche fulmini. Mantellina e ghette sono già a portata di mano in cima allo zaino.
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Sono fuori dalle indicazioni della Francigena, seguo i segni del Cai. Qualche dubbio di troppo ai bivi, non mi sembrano proprio messi a regola d’arte. Ma non sbaglio nulla. All’incrocio con l’ asfalto però devo attivare la localizzazione gps su google maps. Nel bosco il silenzio è perfetto, irreale. Mi allontano gradualmente dagli abitati ed entro in una dimensione diversa, degna introduzione alla meta di oggi.
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Poi, dopo qualche strappo in salita, esco su un ampio sterrato che affaccia già sulla valle dell’Orcia. Attraverso pascoli e agriturismi molto invitanti, tra prati e ginestre in fiore. Villa a Tolli è una specie di albergo diffuso che occupa un’intera frazione, chiesetta campestre compresa. Me lo segno, se non costa troppo un weekend qui in autunno… Perché no.
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Poi lo sterrato si fa ripido e sassoso nella discesa finale. Non il massimo alla fine di una giornata di cammino, i piedi protestano. Ma ciò che vedo alla fine della discesa, oltre una curva che supera l’ultimo lembo di bosco, fa svanire qualsiasi altra sensazione o pensiero. Caro pellegrino, ecco Sant’Antimo, un pezzo di paradiso prestato a questa conca seminascosta nella principale valle di lacrime dell’universo. Sembra un sogno. Com’è possibile che un’abbazia così stia in un posto così isolato? Era possibile nell’alto medioevo. Molto alto.
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Il tempo in definitiva ha retto, almeno per ora. Quando arrivo in vista dell’abbazia sento il rintocco delle cinque. Entro in chiesa. Che luce, che austera bellezza, che emozione. Non c’è nessuno. Sosto qualche minuto in preghiera. Poi esco e vado in cerca dei frati. Giro attorno alla struttura e vedo un giovane al lavoro con una falciatrice. Richiamo la sua attenzione e mi presento. È frate Mauro, romano, 40 anni di cui 12 passati qui. Mi presenta il priore, Padre Giancarlo, e poi mi accompagna al centro Tabor, a circa duecento metri dalla chiesa, sulla salita che porta al paese (Castelnuovo dell’Abate, un toponimo abbastanza esplicito che già spiega qualcosa della storia del posto).
Come ieri: appena entro e mi libero dello zaino si aprono le cateratte del cielo, e giù il diluvio. Chiara benevolenza celeste. Anche se stavolta la pioggia non la posso evitare: devo raggiungere in fretta il paese per procurarmi qualcosa da mangiare. Ma quando esco di nuovo, docciato, rilassato, con la mia mantellina, le ghette e i sandali affronto la salita verso il paese molto più leggero, e in gran forma. Mi bagno solo i piedi e mi sento bene. Molto bene.
Torno in tempo per assistere ai vespri cantati in latino. La chiesa ha un’acustica bellissima e i frati, seppure in pochi, riescono a farsi sentire. Belli i loro gesti, la solenne semplicità del rito che impasta musica e silenzio, parola di Dio e respiro dell’uomo.
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Al termine conosco Rosaria, una bresciana sui sessant’anni che passa gran parte dell’anno qui ad aiutare i frati. Mi chiede se voglio mangiare un po’ di pasta con lei nella Sala Norberto, la foresteria con uso cucina a disposizione degli ospiti. Ok, uno dei due panini che ho comprato può aspettare. L’altro lo taglio a “tartine” e lo offro come aperitivo, lo mangiamo insieme al vino in dotazione. È il caso di dirlo? Ottimo.
Rosaria mi racconta un po’ della sua storia. La cosa piú divertente è che è capitata qui per la prima volta ai tempi del giubileo leggendo un articolo su… Donna Moderna 🙂 Passiamo un’ottima serata. Mi sento accolto davvero da pellegrino. Dopo la cena la Compieta e due chiacchiere con gli altri frati fuori, mentre il tramonto ha qualcosa da dire alle ultime nubi riottose ma ormai sconfitte. “Ora lascia, Signore, che il tuo servo vada in pace”.
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Da Siena a Ponte d’Arbia

Parto alle sette. Suor Ginetta alle sei e mezza si fa trovare per la colazione. E poi si segna di chiamare l’ospitale di Ponte d’Arbia per stasera. E meno male che, mi dice, il servizio ai pellegrini è nato quasi “per scherzo” in mezzo a tutte le attività caritative delle vincenziane, che non sono poche.

Esco da piazzetta San Domenico e mi accorgo che il tempo è cambiato: qualche goccia, niente che valga la mantellina, e un po’ di nuvole, non un fronte compatto. Esco da porta Romana e affronto la strada della Certosa che mi porta fuori dall’area urbana regalandomi bei panorami sulla valle.

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Cammino tutto il giorno su colline di tufo, passando davanti a piccoli casolari e percorrendo grandi sterrati. Fino a Isola d’Arbia e alla Grancia (si tratta proprio di una delle “grance”, poderi agricoli che, ho appreso ieri, dipendevano da Santa Maria della Scala) vado liscio. Poi, complice il caldo crescente mitigato solo in parte dalla nuvolosità e alcuni saliscendi impegnativi, comincio a rallentare.

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Sarà per questo che alla fine avrò la sensazione di aver fatto qualcosa di piú dei 26.5 chilometri annunciati dalla guida. Ma le continue variazioni del tempo aiutano, più che ostacolare. Sull’ennesimo scollinamento, uno o due chilometri prima di Quinciano, il vento è forte, piega gli arbusti e il grano, una nuvoletta piccola ma ostinata sembra inseguirmi e scarica raffiche di goccioloni ogni tanto; la luce sembra impazzita e si getta ora su un punto vicino ora su uno lontano, come se qualcuno stesse manovrando uno spot alternativamente sulla platea e sul boccascena di un teatro. Lo spirito soffia dove vuole.
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Negli ultimi chilometri in piano la pioggia aumenta. Per la prima volta dall’inizio del cammino uso la mantellina. Ma sono fortunato perché il vero temporale arriva quando sono già a Ponte d’Arbia e mi siedo in un punto riparato ad aspettare l’arrivo del volontario. Il Centro Culturale Monsignor Cresti è un bellissimo ospitale a gestione parrocchiale. Ha quattro camere, una cucina ben attrezzata, una bella sala da pranzo. Volontari della parrocchia si alternano, non stanno nella struttura ma vengono ad aprirla quando arrivano i pellegrini. Parlo con Guido, un tipo simpatico sulla sessantina. Mi dice che il flusso di pellegrini è cresciuto molto in due anni.
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